lunedì 20 dicembre 2010

Università. L’Italia ha bisogno di ben altre riforme. L’ impegno dell’opposizione

Manuela Ghizzoni

I gruppi parlamentari del Pd hanno condotto una ferma opposizione alla “riforma” Gelmini dell’università. Sia chiaro, e ci tengo a dirlo come incipit di queste mie brevi considerazioni: siamo i più convinti della necessità di riformare l’università. Lo abbiamo dimostrato attraverso atti concreti, presentando provvedimenti, e proposte emendative, perché abbiamo sempre avuto questa convinzione: riteniamo che si debba dare un concreto impulso alla conoscenza, alla formazione, alla ricerca e al trasferimento tecnologico, cioè a quella filiera del sapere, che costituisce uno dei principali volani di sviluppo sociale ed economico del Paese. Vogliamo questo, anche per dare opportunità e crescita ai nostri ragazzi, ai nostri studenti, le cui prospettive sono rinchiuse nel recinto del timore per il futuro e nel vedere soffocate le proprie aspirazioni. I dati ISTAT sulla disoccupazione dei laureati fanno riflettere e dovrebbero scuotere un Governo responsabile, indurlo ad assumere azioni conseguenti, mentre invece, abbiamo una legge profondamente inadeguata. Ad esempio, nella legge, non vi è alcuna riflessione che, invece, sarebbe stata necessaria e opportuna, sull’offerta formativa e, quindi, sul cosiddetto processo di Bologna.
Sia mai che su questi temi strategici potesse aprire bocca il Parlamento, cioè i rappresentanti dei cittadini italiani! La ragione è semplice e, allo stesso tempo, assolutamente non condivisibile: il Ministro ha preferito intervenire in solitudine su questi temi attraverso il decreto ministeriale del 22 settembre, n. 17, che sancisce un vero taglio - questo sì - epocale alla didattica e alla formazione universitaria. Ciò senza tenere in alcun conto - e credo che questo sia molto grave - delle conseguenze di impoverimento disciplinare di interi percorsi formativi, in particolare, e, più in generale, di decadimento scientifico e culturale.
L’aspetto più grave è che queste scelte avvengono al di fuori di una programmazione e, soprattutto, senza valutazione dei risultati conseguiti dai corsi di studio che saranno chiusi. È in aperta contraddizione con quello slogan, ripetuto ossessivamente dal lei, signora Ministra, ma anche da altri componenti del Governo, come un mantra, circa la valorizzazione del merito. Ci si affiderà, invece, al solito sistema del controllo, delle procedure e della rispondenza a requisiti numerici, con buona pace per la qualità scientifica e la didattica.
E ancora: è necessario riformare il sistema universitario per investire davvero sul valore dei giovani ricercatori e dar loro l’occasione di lavorare per il proprio Paese, inserendosi stabilmente nel sistema universitario. Mi chiedo se, al netto dei principi dell’internazionalizzazione del sapere e della mobilità dei ricercatori, su cui si sono soffermati altri colleghi, il Governo sia davvero consapevole di quanta formazione l’Italia faccia a vantaggio degli altri Paesi. Infatti, sono numerosissimi i nostri giovani che vanno all’estero, perché, naturalmente, qui li aspetta un futuro di precariato e di avvilimento.
È necessario dare fiducia e gratificazione a coloro i quali lavorano seriamente - e sono la stragrande maggioranza - e con passione all’interno del sistema universitario, perché credono nella funzione pubblica e culturale del proprio ruolo. A loro dobbiamo la dodicesima posizione mondiale per qualità e la quarta posizione per accesso nel QS World University Rankings. Sono gli stessi dati che qualche detrattore usa in malo modo per far opinione comune che nel nostro Paese la ricerca non sia di qualità: tuttavia, questi dati li smentiscono chiaramente.
A costoro, dopo averne bloccato il turnover, modificando così le legittime attese di progressione di carriera, e dopo aver congelato il loro stipendio con il provvedimento di questa estate senza possibilità di recupero, il Governo annuncia l’ennesima riforma delle modalità concorsuali e anticipa la rottamazione dei ricercatori, verosimilmente, dal 2013 al prossimo anno. In questo modo, i ruoli della docenza ricorderanno quelli dell’accordo Governo-sindacati del 1977. Non c’è che dire: un bel passo in avanti e indietro di trent’anni.
Su questi aspetti, vorrei svolgere due considerazioni velocissime. La prima fa riferimento al fatto che, a distanza di due anni, discutiamo in questa stessa Aula, nuovamente, di alchimie per il reclutamento dei professori universitari. Dati gli esiti passati e recenti dei concorsi, forse, non sarebbe stato il caso di concentrare le nostre energie e le nostre riflessioni non sulle modalità, ma sulla valutazione delle politiche di reclutamento? Questo tema, invece, sfuggirà, di fatto, alla discussione, perché è inserito nella pervasiva delega prevista all’articolo 5, il vero core del disegno di legge in oggetto.
La seconda considerazione riguarda, invece, l’anticipazione dell’abolizione del ruolo dei ricercatori. Dopo averli sfruttati gratuitamente per far fronte alle necessità didattiche, a fronte del blocco del turnover, gli si dice che non potranno mai diventare professori, sebbene, di fatto, lo siano già, poiché, nella stragrande maggioranza dei casi, associano l’attività di ricerca a quella didattica.E non ci si venga a dire che il disegno di legge di stabilità, ora all’esame del Senato, prevede le risorse necessarie per nuovi posti di professore associato, poiché - lo sappiamo - è una menzogna che le cifre hanno smascherato facilmente, come abbiamo dimostrato in questa stessa Aula non più tardi di giovedì scorso.
Ancora, riformare per dare finalmente al sistema universitario un modello di governance in grado di indicare precisamente i livelli decisionali e in capo a chi vanno le responsabilità, salvaguardando, però, il principio costituzionale dell’autonomia universitaria, che deve basarsi su un forte e autonomo sistema di valutazione per essere davvero responsabile.
Purtroppo, il Governo non si è ispirato ai principi che ho richiamato per elaborare questo provvedimento, che, a mio avviso, è iniquo, centralista, affetto da ipernormativismo paralizzante di tutte le attività, ordinarie e straordinarie. È, ancora, un provvedimento incapace di garantire pari opportunità di accesso e di frequenza degli studenti, come dimostra chiaramente l’assenza di qualsiasi risorsa appostata per il fondo che, non senza demagogia, è stato chiamato Fondo per il merito, ma con gli annunci non si mandano i ragazzi all’università.
Un provvedimento inadeguato a valorizzare la maturità scientifica e didattica del personale docente e ricercatore e che condanna a una condizione di precarietà i tanti giovani di talento che, già ora, offrono le loro competenze e il loro sapere a vantaggio degli atenei, con contratti che non prevedono alcuna tutela sociale. A costoro il Governo della Destra sta dicendo, non senza cinismo, di prendere la via dell’estero o, in alternativa, di iniziare daccapo un nuovo lungo e incerto cammino di precariato, che, forse, dopo dodici anni potrà approdare alla chiamata da parte dell’università.
Avremmo voluto affrontare con serenità i temi che ho appena richiamato, avremmo voluto farlo con un confronto vero, che sarebbe stato responsabilità del Ministro aprire fra tutte le forze politiche con le componenti dell’università. Così non è stato, e, soprattutto alla Camera dei deputati, il dibattito è stato compresso, concentrato in poche sedute, sottoposto alla pressione del Governo, e che ha imposto la discussione prima che il disegno di legge di stabilità venga approvato definitivamente. Questo non è un punto secondario perché, a differenza di quanto ha affermato l’On. Aprea, le norme ordinamentali non sono neutre, perché producono effetti che, a mio modo di vedere, sono negativi e che solo adeguate risorse possono, almeno in parte, compensare. Mi riferisco per esempio solo per citare alcuni casi - ma credo che in questo concorderete con me - alla erogazione delle borse studio, alla possibilità di mettere a bando vere posizioni in tenure track e nuovi posti da professore. Ora, è stata esercitata dal Governo una pressione insopportabile nei confronti dei parlamentari, evidentemente anche in considerazione delle turbolenze che scuotono la maggioranza, e il collega Bachelet, che è intervenuto nella mattinata prima di me, ha riassunto in modo esemplare, credo, quanto accaduto nei giorni scorsi, nelle concitate sedute della Commissione bilancio e della Commissione cultura. Ma qui voglio ricordare che il Ministro giustificò l’accelerazione all’approvazione del disegno di legge e, uso le stesse parole del Ministro pronunciate in Commissione, con l’opportunità di potersi appuntare un fiore all’occhiello. Lo dico con rammarico, ma penso che l’attenzione che deve essere rivolta da chi ha responsabilità di Governo al sistema universitario, proprio per l’importanza strategica del sistema, doveva trovare una motivazione ben più solida che non la possibilità di aggiungere una mostrina al proprio percorso politico.
Non rinunceremo ora, a Legge approvata, ma con ancora tutto aperto un lunghissimo itinerario regolamentare, e dopo le osservazioni del Presidente della Repubblica, a rappresentare le molte ombre di questo testo di legge e le nostre proposte alternative, a dimostrazione del fatto che affrontare un’altra riforma dell’università non è solo possibile, ma è auspicabile per il bene della comunità scientifica e del Paese.